Brexit e dintorni

Brexit e dintorni

Cartina geografica BrexitCome talvolta accade, i media, ma anche il grande pubblico, s’impadroniscono di un termine suggestivo al fine d’indicare un fenomeno di cui per vero raramente si conoscono (i media per primi) tutte le concrete implicazioni. Brexit è uno di questi e sta ad indicare icasticamente l’ipotesi di un abbandono da parte della Gran Bretagna dell’Unione europea: appunto British Exit, coniato sulla falsariga di Grexit allusiva della precedente ipotesi di uscita della Grecia nel 2015, benché le due cose abbiano assai poco da spartire tra loro. Peraltro, solo della Brexit abbiamo assistito ad un concreto avvio allorché gli elettori inglesi si sono, com’è noto, espressi in tal senso nel referendum del 23 giugno scorso.
Non c’è modo di illustrarne qui gli antecedenti, se non per ricordare che probabilmente si è trattato di un passo poco meditato del Primo Ministro Cameron impegnatosi a rimettere in discussione la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea il 23 gennaio 2013 nell’ambito della campagna elettorale per la sua riconferma a capo dell’esecutivo britannico. Non erano infatti poche e senza peso le ragioni legate a mentalità, tradizione politica ed interessi economici, a cui gli inglesi, magari scossi da questioni più contingenti (nella specie gli effetti migratori della guerra siriana), avrebbero potuto appellarsi per decidere di tagliare la corda sol che ne fosse loro offerta l’occasione.
Si cercherà invece di indicare per grandi linee quali ne siano le conseguenze (alcune già in atto) per la Gran Bretagna e per l’Unione, benché in un mondo interconnesso e globalizzato quasi nessun Paese possa restare del tutto indenne da un fatto del genere.


Intanto, Cameron, dopo avere manifestato contemporaneamente con l’annuncio dell’esito referendario l’intenzione di dimettersi ad ottobre prossimo, innescando così una seria crisi nel partito conservatore, dopo solo qualche giorno ha ceduto il campo ad un nuovo Primo Ministro, la signora Theresa May. Il maggior partito di opposizione, quello laburista, non se la passa meglio: il suo leader Jeremy Corbyn, accusato di essersi mosso troppo tiepidamente contro la Brexit, è stato sfiduciato dalla maggioranza dei deputati del suo partito, mentre è in fibrillazione tutto quello che gli inglesi chiamano lo Shadow Cabinet, ossia il governo ombra che replica dall’opposizione la struttura del governo in carica. Il partito nazionalista scozzese, dal canto suo, si trova forse con qualche sorpresa di fronte al bivio già evocato drammaticamente prima dell’elezione: l’Europa o la secessione dal Regno Unito …
Forse l’unica che ha reagito con humour e compostezza inglese è stata Elisabetta: “sono ancora in vita” ha risposto la novantenne regnante a chi le chiedeva come stesse il mattino dopo lo scrutinio. Ma molti si sono affrettati a ricordare che in fondo si era trattato solo di un referendum consultivo, giuridicamente non vincolante sicché i deputati inglesi potrebbero non convalidare il suo esito: l’ipotesi, oltre che foriera di delicate questioni attinenti ai rapporti tra Parlamento e Primo Ministro, sembra però politicamente da scartare ed anzi non parrebbe vera al capo del partito antieuropeista Nigel Farage in quanto sarebbe l’anticamera del disastro per la classe politica tradizionale al potere (altro discorso sarebbe quello riguardante un’artificiosa situazione di stallo …).


Comunque, perché la Brexit raggiunga il suo scopo, occorre che la Gran Bretagna, come prescrive l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, lo comunichi ufficialmente. Nel primo Consiglio europeo utile del 28 e 29 giugno, Cameron se ne è tuttavia uscito rimettendo al suo successore la decisione di far ricorso a quell’articolo, provocando la reazione un po’ piccata del Presidente di quel Consiglio Donald Tusk, che ha espresso, è vero, comprensione sull’opportunità che le cose abbiano una certa decantazione, ma ha anche fatto presente senza mezzi termini che occorre che gli inglesi chiariscano le loro intenzioni il più presto possibile.
Nel frattempo, però, deve considerarsi decaduto il cd. accordo anti-Brexit, stipulato tra l’Unione ed il Regno Unito nel febbraio di quest’anno con il cui s’è tentato di venire incontro ancora una volta alle richieste inglesi. L’accordo è molto istruttivo per capire l’atteggiamento pretenzioso inglese, ma anche quello un po’ cinico di tutti gli altri Paesi, visto che, accanto alle concessioni più immediate ed operative, si era accettato di dispensare la Gran Bretagna dall’obbligo, previsto fin dall’origine della Comunità, di perseguire l’obiettivo di “un’unione sempre più stretta” (ever closer union). E ciò perché gli inglesi paventavano che il processo d’integrazione potesse condurre a termine alla cancellazione della sovranità del Regno Unito a beneficio di una nuova entità federale sovraordinata. Tanto che qualcuno potrebbe persino compiacersi di non aver dato vita ad un’ennesima situazione di favore dopo quelle (limitandoci alle più vistose) concernenti il mancato ingresso inglese nell’eurozona (e di conseguenza nel Fiscal Compact), la riduzione privilegiata della contribuzione della Gran Bretagna al bilancio dell’Unione, la sua collocazione fuori dallo spazio Schengen e l’opting out di Londra nei confronti sia della Carta sociale europea, sia della Carta di Nizza.


In ogni caso, se e quando avverrà la fatidica comunicazione, incomincerà a decorrere un periodo transitorio massimo di due anni da impiegarsi per stipulare gli accordi sulle modalità di uscita dall’Unione e su quelle eventualmente intese a mantenere il Regno Unito come partner economico e commerciale di un’Europa scesa a 27 membri (ognuno dei quali in grado di dire la sua al proposito). Come s’intende, è questo un argomento impossibile da liquidarsi in poche righe, così come è sconsigliabile strologare sulle conseguenze di carattere economico più generali della Brexit sui mercati e sul sistema finanziario europeo e dei singoli Stati. Ci si limita pertanto a sottolineare che le notizie non sono eccellenti: ad esempio, secondo una fonte autorevole e competente come l’OCSE, per il Regno Unito saremmo di fronte ad una “major negative shock to the UK economy, with economic fallout in the rest of the OECD, particularly other European countries”, ciò che peraltro conferma il banalmente prevedibile. Dai dettagli si apprende però che la Brexit potrebbe avere, per il Regno Unito, in qualche misura l’effetto di un’imposta sul PIL, caricando di costi durevoli e crescenti l’economia (per il 2020 si prevede un PIL più basso del 3 % equivalente ad un costo medio di 2250 sterline per nucleo familiare). Scenario destinato ad aggravarsi sul più lungo termine, a causa del calo della produttività indotta dalla diminuzione degli investimenti stranieri. Ma effetti depressivi non troppo dissimili potrebbero affliggere anche gli altri Paesi europei specie sul breve periodo a causa delle incertezze sul futuro dell’Europa.


Soffermiamoci allora, nei limiti di queste sintetiche osservazioni, su conseguenze di altro tipo, per vero alquanto eterogenee, ma assistite da un maggior grado di certezza.

  • Per la Gran Bretagna.
    Se tra gli effetti reputati positivi dagli antieuropeisti britannici ci sono il risparmio da sei a sette milioni di euro per le spese di mantenimento in Europa, il recupero di tempo di lavoro da parte del parlamento di Londra che non dovrà più occuparsi delle questioni europee, e, più sostanziosamente, l’eliminazione di qualsiasi rischio di essere coinvolti nella crisi del debito sovrano nella zona euro a cui oltremanica ci si reputa del tutto estranei, in materia di scambi commerciali si apre un capitolo tutto da scrivere. Potrebbero, ad es., risorgere i dazi doganali tra Gran Bretagna e Unione, a meno che non vi sia l’adesione inglese agli accordi per il libero scambio già vigenti con alcuni Paesi come la Norvegia e la Svizzera (in tal caso verrebbe mantenuta la completa circolazione di persone, beni e servizi, salvo l’agricoltura, e la Gran Bretagna dovrebbe addirittura continuare a contribuire al bilancio dell’Unione). Anche gli scambi commerciali non configurandosi più come operazioni intracomunitarie sono in teoria destinati a scontare l’IVA all’importazione.
    Per i cittadini europei non dovrebbe invece cambiare niente circa le modalità attuali di recarsi a Londra (abbiamo visto che gli inglesi non hanno mai aderito alla libera circolazione tra i diversi Paesi), anche se si potrebbe ipotizzare l’introduzione da parte inglese di restrizioni in materia di permesso di lavoro che peraltro si ribalterebbero in base ad un principio di reciprocità sul Regno Unito. La stessa reciprocità potrebbe caratterizzare l’incremento degli oneri finanziari per gli studenti a cominciare dall’Erasmus: anzi gli studenti inglesi che intendono studiare in Europa potrebbero essere colpiti da un aumento delle tasse superiore a quelle degli studenti extracomunitari.
    In materia migratoria, poi, il ministro francese Macron ha già ipotizzato il “liberi tutti” con riferimento agli extracomunitari che invece la Francia si è impegnata con il Regno Unito a trattenere alla frontiera di Calais.
  • Per l’Unione europea.
    Tra gli effetti certamente svantaggiosi, c’è la perdita di una delle sue tre grandi potenze (accanto a Germania e Francia), di una delle piazze finanziarie più importanti al mondo, del primo partner diplomatico degli USA in Europa nonché di una forza militare assai bene addestrata.
    Inoltre, con l’uscita della Gran Bretagna, cambia l’equilibrio politico nelle istituzioni dell’Unione e in particolare diventa più risicato il gruppo dei Paesi considerati oggi maggiormente liberali (Regno Unito, Paesi Bassi e Repubblica ceca), tanto da rendere impossibile, anche se ci fosse il consueto supporto della Germania, il formarsi di quella minoranza in grado di esercitare il diritto di veto riconosciuto dal 2014 ad un gruppo di quattro Paesi rappresentanti almeno il 35% della popolazione europea. Inoltre l’assetto di vertice adesso sostanzialmente tripolare, si fonderebbe solo sull’asse Berlino-Parigi ed è visibile il rischio di una preponderanza tutta dalla parte tedesca.
    Per altro verso, il fatto che un membro, per di più così importante, abbia lasciato l’UE potrebbe costituire l’avvio di altri disimpegni per la delizia dei movimenti politici ostili all’Europa presenti un po’ dappertutto.
    Ma la Brexit potrebbe avere un forte impatto negativo anche a livello internazionale. Le grandi potenze mondiali potrebbero cominciare a nutrire qualche perplessità sulla solidità del blocco europeo con quanto ne consegue per noi in termini di autorevolezza e credibilità, a meno che l’occasione possa essere accortamente convertita nel suo contrario, aprendosi una stagione di rafforzamento del processo di integrazione senza più soverchi intralci e alibi per nessuno.
Pasquale Costanzo
Dipartimento di Giurisprudenza
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