Siria: una guerra stratificata

Siria: una guerra stratificata

Prima l'ondata di rifugiati riversatasi in Europa la scorsa estate, poi i tragici fatti di Parigi, ci hanno costretto a fare i conti con un conflitto che avremmo voluto in ogni modo ignorare, quello siriano. Un conflitto che - come un tempo quello israelo-palestinese - ha una capacità magnetica e centrifuga: attira combattenti da tutto il mondo, e al tempo stesso offre una bandiera a giovani radicalizzati in lotta contro i padri e le patrie adottive.


Un conflitto che si sarebbe dovuto - e probabilmente si sarebbe potuto - fermare prima, se solo ve ne fosse stata la volontà politica. Perché è bene ricordarlo: la guerra civile in Siria non è iniziata con l'arrivo di al-Qaeda o dell'ISIS, ma è iniziata dalle speranze soffocate dei cittadini siriani che, su ispirazione degli eventi di Tunisi e del Cairo, chiesero la fine della dittatura ereditaria degli al-Asad sulla Siria. Si badi bene, la piazza di Damasco era più moderata di quella delle altre capitali arabe. Non si chiedeva la caduta immediata del presidente, ma l'avvio di un processo di riforme che garantissero le libertà essenziali e soprattutto il rispetto dello stato di diritto, in un Paese divenuto preda della corruzione più sfrenata e dell'ordinaria impunità. Ma la scelta di Bashar al-Asad, oftalmologo divenuto presidente quasi per caso - a causa della morte accidentale del fratello Bassil - alla scomparsa del padre Hafez, fu quella della tolleranza zero. All'esercito venne ordinato di sparare sui manifestanti, e, nell'arco di pochi mesi, quella che era iniziata come una sollevazione pacifica contro il regime divenne una guerra civile sempre più violenta.


Da quel momento, al conflitto tra ribelli e regime di al-Asad si sono sovrapposti innumerevoli altri strati, come ha recentemente ricordato Marina Calculli, ricercatrice dell'American University in Beirut, intervenuta a un seminario organizzato dal Dipartimento di Scienze Politiche (DISPO) e intitolato Siria: epicentro del Risiko mediterraneo.


La Siria infatti, da arena di uno scontro interno per il potere, è divenuta un campo di battaglia. Da soggetti protagonisti della propria causa, i siriani si sono trovati ad essere pedine su una scacchiera dove si gioca una partita regionale per l'egemonia in Medio Oriente. Iran, Arabia Saudita, Qatar, Turchia: tutte le principali potenze della regione sono intervenute sostenendo il governo o le fazioni ribelli. Da un lato, questo ha permesso la sopravvivenza del regime di Bashar al-Asad, di cui senza l'aiuto dell'Iran e dell'Hizbollah libanese, oggi rimarrebbe solo il ricordo. Dall'altro, ha modificato geneticamente la natura dell'opposizione, catalizzandola verso le formazioni meglio armate e finanziate, ossia gli islamisti appoggiati da Arabia Saudita e Qatar.


In questo contesto estremamente fluido dal punto di vista bellico, il controllo del territorio si è frammentato creando uno sgretolamento dello Stato in cui si è inserito l'ISIS, le cui origini sono da rintracciare nella guerriglia anti-americana e anti-sciita organizzata da Abu Musab al-Zarqawi in Iraq. In Siria l'ISIS ha trovato un rifugio sicuro - una capitale, l'ormai tristemente famosa Raqqa - e ha potuto disporre della profondità strategica necessaria per lanciare un assalto in grande stile al nord dell'Iraq. Assalto che si è concretizzato nel giugno del 2014 con la conquista di Mosul, quando tutto il mondo è venuto a conoscenza dei folli piani del Califfato.


L'emergere dell'ISIS ha costretto gli Stati Uniti a intervenire - anche se solo attraverso l'aviazione - in un conflitto dal quale Barak Obama aveva cercato invano di tenersi alla larga. Ecco aggiungersi così un altro strato - quello delle grandi potenze internazionali - al conflitto siriano. Gli USA sono stati seguiti dalla Russia, che fin dal primo minuto della guerra aveva sostenuto al-Asad e che, a settembre 2015, constatando l'estremo indebolimento delle forze governative siriane, ha deciso per l'invio di cacciabombardieri e truppe di terra. A Tartus, sulla costa siriana, Mosca conserva l'unica propria base militare sul Mediterraneo.


Il risultato di questa guerra a più livelli, che si intersecano componendo un quadro sempre più complesso, è che il suo sostrato fondamentale - le rivendicazioni dell'opposizione contro il regime - è ormai divenuto secondario rispetto a quello che viene ritenuto da tutti l'obiettivo primario: l'annientamento dell'ISIS. Allo stesso tempo, mentre gli allineamenti internazionali e regionali sono relativamente chiari, la situazione sul campo si è fatta sempre più frammentaria. L'ISIS è, assieme a poche altre, l'unica formazione di opposizione al regime a possedere visibilità e coerenza interna. Il resto del fronte ribelle è formato da una miriade di milizie locali e formazioni minori, prive di qualsiasi visione politica e spesso al confine con il banditismo selvaggio. La Siria si è nel frattempo svuotata: metà dei suoi 22 milioni di abitanti è oggi profugo dentro o fuori il Paese.


Non a caso, ai recenti colloqui di Vienna che avrebbero dovuto rilanciare il negoziato internazionale per la pace in Siria, non era presente nemmeno un rappresentante siriano. Il dato positivo è che per la prima volta i russi e gli iraniani sono stati ammessi al tavolo delle trattative, ma basterà un accordo tra grandi e medie potenze per ricomporre un mosaico che sembra irrimediabilmente frantumato?

Giorgio Musso
Dipartimento di Scienze politiche
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