Se “lo stato delle carceri risulta specchio dello stato delle nazioni…”

Se “lo stato delle carceri risulta specchio dello stato delle nazioni…”

(parafrasando C. Beccaria in “Dei delitti e delle pene”)


Mercoledì 20 novembre 2013, nell’ambito del corso di “Diritti di libertà e diritti sociali” gli studenti hanno partecipato ad un seminario di studio sui “diritti di libertà dei detenuti, nella giurisprudenza costituzionale ed europea”, discutendo del tema col dott. Francesco Picozzi (funzionario del Ministero della giustizia) e Lara Trucco (docente titolare del corso). Come rivela, in parte, il titolo dell’incontro, l’approccio seguito è stato in linea con quello adottato durante tutto il corso, dato che si son prese le mosse dal c.d. “principio di massima espansione delle libertà individuali”, esaminandone portata ed implicazioni nella (del tutto particolare, per non dire “ribaltata”) realtà carceraria e perché il tema è stato affrontato in un’ottica c.d. “multilivello”, tenendosi, cioè, conto dei molteplici livelli ordinamentali di tutela dei diritti fondamentali.


Nella prima parte del seminario si è dunque preso in considerazione il quadro normativo della materia, con particolare attenzione al dato costituzionale (spec. agli artt. 2, 3, 13, 27 e 117, 1° comma, della Costituzione) ed a quello legislativo (spec. la legge n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme “sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta”). Su questa base, sono stati quindi esaminati i delicati profili del “trattamento penitenziario e della rieducazione in carcere”. Più nel dettaglio, si sono prese in considerazione le norme concernenti l’igiene, il vestiario, l’alimentazione e i servizi di tipo sanitario a disposizione dei detenuti, arrivando, nel percorrimento di questa strada, a considerare l’espletamento di pratiche religiose e di culto, nonché lo svolgimento di attività lavorative, oltre che di istruzione e ricreative, passando attraverso il possibile mantenimento di relazioni con l’esterno di tipo parentale (diritto di visita) e legale (coi propri avvocati). In questo quadro, si è anche discusso della limitazione dell’impiego di nuovi (spec., internet e smartphones) e meno nuovi (telefoni via cavo e stampati) mezzi di informazione e comunicazione negli istituti carcerari; ed il dibattito si è infiammato quando si è parlato della sent. della Corte costituzionale n. 26 del 1999 (originata da una questione sollevata da un magistrato di sorveglianza chiamato a decidere sui reclami proposti da taluni detenuti, in relazione a una determinazione della direzione dell’istituto penitenziario che non consentiva loro di ricevere, nell’istituto penitenziario, riviste aventi un contenuto del tutto particolare), in cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di taluni articoli della suddetta legge sull’ordinamento penitenziario, perché non garantivano ai detenuti la possibilità di sottoporre ad una qualche autorità giurisdizionale atti della amministrazione penitenziaria lamentati come lesivi di loro diritti fondamentali (quali, per l’appunto, ad es., la libertà di ricevere informazioni, consacrata dall’art. 21 della Costituzione).


Nella seconda parte dell’incontro l’attenzione si è concentrata sulle strutture carcerarie e sulle condizioni di detenzione: vero e proprio punctum dolens della situazione penitenziaria del nostro Paese. Del resto, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha censurato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU (relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti), dopo avere appurato l’inidoneità di buona parte delle nostre strutture carcerarie ad assicurare ai detenuti quello “spazio personale vitale” – fissato dal Comitato per la prevenzione della tortura (istituito dal Consiglio d’Europa) in, all’incirca, 7 m² di superficie per recluso – in ogni cella detentiva (v. Corte EDU, sent. 16 luglio 2009 (ric. n. 22635/03) Sulejmanovic c. Italia, §40). Ancora (più) di recente, poi, lo stesso Giudice ha censurato nuovamente l’Italia, recriminando, in particolare, il fatto che alla «data del 13 aprile 2012, le carceri italiane accoglie[ssero] 66.585 detenuti», presentando «un tasso di sovraffollamento del 148%» (Corte EDU, sent. 8 gennaio 2013 (ricc. nn. 43517/09 e al. Torreggiani e altri c. Italia, § 29: si noti, peraltro, come, nella pronuncia in questione la Corte di Strasburgo si sia detta «colpita dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane siano persone sottoposte a custodia cautelare in attesa di giudizio» (§94)).


La terza parte del seminario si è quindi incentrata sui ripetuti moniti, indotti da una tale «drammatica questione carceraria», che il Capo dello Stato ha operato (pure durante il precedente settennato) e, particolarmente, sulla sottoposizione, da ultimo, da parte dello stesso Presidente Napolitano «all’attenzione del Parlamento» dell’inderogabile necessità «di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo», sul presupposto che «la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisc[a] non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale» (v. il Messaggio del Capo dello Stato alle Camere “sulla situazione carceraria italiana” dell’8 ottobre 2013).


Più in generale, un pronto ed efficace intevento dell’organo parlamentare – magari, con l’attuazione di un “piano carceri” in grado di aumentare apprezzabilmente il numero/l’offerta di strutture penitenziarie nel nostro Paese – è parsa una soluzione auspicabile. Tuttavia, si è dovuto prendere atto di come le “difficoltà” dell’organo parlamentare di condurre azioni apprezzabili pure in questo settore (oltre che, più in genere, in materie “eticamente sensibili”) anche in ragione della crisi economica (si calcola – senza peraltro tener conto dell’“indotto” che ciò produrrebbe – che la costruzione di una struttura carceraria costi almeno 50 milioni di euro) hanno portato (anche tra i partecipanti al seminario) a spostare lo sguardo su altri versanti e possibili soluzioni. Si è esaminata, così, in particolare, la proposta del Guardasigilli Cancellieri (presentata in occasione della sua visita a Strasburgo, lo scorso 4 novembre) di prevedere nel c.d. “pacchetto carceri” uno sconto di pena per i trattamenti inumani e degradanti patiti in carcere (in concreto: l’idea è quella di prevedere, per i detenuti che abbiano subìto una carcerazione in stato di sovraffollamento, una possibilità di “sconto” sulla durata della loro condanna, proporzionale al periodo “sofferto”). Ad una simile soluzione si è ascritto il merito di essersi fatto carico della necessità di affrontare il problema; tuttavia, se ne sono messe in luce, altresì, talune criticità: particolarmente, la controversa “negoziabilità” dei diritti fondamentali (osteggiata soprattutto da chi considera la riferita soluzione una sorta di contrattazione tra detenuto e amministrazione penitenziaria) e la dubbia compatibilità di una tale soluzione col principio di eguaglianza (specie se si condivide l’idea che, così facendo, si finirebbe per trattare in modo diverso – segnatamente, a seconda della struttura carceraria – situazioni analoghe – a cui, cioè, è riferibile lo stesso “quantum” di pena inflitta).


L’incontro si è quindi concluso con l’esame del Comunicato del 9 ottobre scorso, in cui la Corte costituzionale si è riservata, nel caso di perdurante inerzia legislativa (in punto, proprio, di “sovraffollamento carcerario”) in «un eventuale successivo procedimento» di adottare «le necessarie decisioni dirette a far cessare l’esecuzione della pena in condizioni contrarie al senso di umanità». In particolare, si è ragionato sui modi effettivi di intervento, da parte del giudice delle leggi, per il conseguimento di un tale obiettivo.


Ebbene, preme ora osservare come, nella sent. n. 279 del 22 novembre 2013, la Corte abbia chiarito maggiormente la propria posizione, dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate da taluni Tribunali, ritenendo di non potersi sostituire al legislatore nella scelta delle varie, «possibili configurazioni dello strumento normativo occorrente per impedire che si protragga un trattamento detentivo contrario al senso di umanità, in violazione degli artt. 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 3 della CEDU». Se, poi, come si diceva, si guarda ai «tipi di rimedi “preventivi”», presi in considerazione dalla Corte, ritenuti idonei «a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità», è possibile avvedersi di come oltre «al mero rinvio dell’esecuzione della pena» (che, come ha tenuto a precisare la stessa Consulta, presenta il limite di poter «lasciare a lungo aperta la […] vicenda esecutiva» della pena) si trovino «quelli modellati sulle misure previste dagli artt. 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario». Tra questi ultimi, val la pena di osservare, particolare attenzione (predilezione?) è stata prestata, dalla Corte, nella pronuncia de qua, alle misure alternative alla detenzione. Una tale posizione, infatti, risulta in linea con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo di cui si è in precedenza riferito, specie là dove si esorta lo Stato che non sia «in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione […] ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà […] e una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere» (v. la “sent. Torreggiani” cit., al §94). Per diverso profilo, come si è in parte anticipato, è possibile pensare che la particolare attrazione manifestata dalla Corte per le misure alternative alla detenzione sia derivata dalla consapevolezza del fatto che si tratta di misure che «potrebbero essere adottate dal giudice anche in mancanza delle condizioni oggi tipicamente previste» (si noti, peraltro, come in quest’ottica, la Consulta abbia ipotizzato nella pronuncia in questione «un ampio ricorso alla detenzione domiciliare, sempre che le condizioni personali lo consentano, o anche ad altre misure di carattere sanzionatorio e di controllo diverse da quelle attualmente previste, da considerare forme alternative di esecuzione della pena»).


Chi scrive si rallegra del fatto che una tale pronuncia, insieme ad un’altra – la sent. n. 278 del 2013, in tema di “parto anonimo” – sia intervenuta pochi giorni dopo lo svolgimento del Seminario e prima dell’ultimo incontro con gli studenti. Ciò, infatti, consentirà, di concludere il ciclo di lezioni esaminando come sono “andate a finire” due vicende che hanno costituito argomenti importanti del corso di diritti di libertà e diritti sociali di quest’anno, al cui svolgimento hanno contribuito attivamente tutti gli studenti interessati, che si desidera qui, senza meno, ringraziare.

Lara Trucco
Dipartimento di Giurisprudenza
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